Ecco la condizione in cui facciamo vivere altri cittadini europei, persone arrivate in Italia per lavorare lasciate sole come compagna quotidiana la morte.
FOGGIA,
HRISTOV E ALINA TRAVOLTI DALLE FIAMME.
La morte
dei fratellini nella baraccopoli
di Carlo
Vulpio, inviato a Stornara (Foggia)
Avevano 2 e
4 anni, vivevano nell’insediamento di Stornara tra lamiere e cumuli di
immondizia. Il fuoco divampato da una stufetta a legna. La mamma era appena
andata da una «vicina» a chiedere un po’ di caffè.
Due fratellini di quattro e due anni, un maschietto e
una femminuccia, bulgari di Burgas, sono morti carbonizzati ieri mattina in una
baracca della favela che sorge a un paio di chilometri dal cimitero di
Stornara. Sono morti così, come possono morire soltanto i disperati della
Terra. Come morirono Aylan e Galip, i fratellini curdi di tre e cinque anni
annegati sulla spiaggia turca di Bodrum nel 2015 nel tentativo di cercare
salvezza in quest’altra parte del Mediterraneo. La tragedia dei fratellini
curdi venne riassunta dalla foto di Aylan riverso sulla spiaggia, che fece il
giro del mondo e lo indusse a provvisoria commozione. Per i due fratellini
bulgari Hristov e Alina nemmeno questo. Chi li ha visti non aveva niente da
fotografare. I due corpicini si potevano a malapena distinguere da due pezzi di
legno usati per il fuoco di un camino. E dopo che i pompieri hanno spento
l’incendio, e medici e carabinieri hanno svolto i dovuti sopralluoghi, i due
bimbi sono stati portati via dal carro funebre, seguito da una macchina in cui
c’erano i loro giovani genitori, 25 anni lei e 28 lui. Niente nomi. Nessun
commento. Anzi, che tutti mantengano la distanza sociale necessaria, perché c’è
il Covid. Invece siamo entrati nella favela, l’abbiamo percorsa in ogni angolo,
tra baracche di cartone e montagne di rifiuti, e abbiamo parlato con questa
gente.
I piccoli addormentati
La tragedia è «semplice», banale. Ieri mattina,
intorno alle 8.30, la mamma dei due bambini è andata da una vicina di «casa» a
chiederle del caffè e si è trattenuta un po’ con lei. Hristov e Alina dormivano
beati nella loro «casa» di cartone pressato e di lamiere, riscaldati da una
stufetta a legna. All’improvviso, una colonna di fumo. Poi le fiamme e l’urlo
della mamma: «I bambini!». Troppo tardi. Alle 9 la catapecchia era stata già
divorata dalle fiamme e quando sono arrivati i vigili del fuoco si è trattato
solo di impedire che l’incendio divampasse in tutta la favela, un sobborgo di
Quarto Mondo innestato nelle campagne ben curate e molto produttive della
Capitanata. Un posto di cui l’Italia dovrebbe vergognarsi, nel quale vivono
come animali un migliaio di persone durante l’inverno e, d’estate, almeno
tremila. Cioè più della metà degli abitanti di Stornara, ma concentrati su una
superficie che non supera i due ettari.
I braccianti e le famiglie
In questo luogo dell’orrore non ci sono né
clandestini, né extracomunitari. Gli abitanti di questa favela italiana sono
tutti bulgari. Vengono da Burgas, come la famiglia di Hristov e Alina, ma anche
da Sofia, da Sliven, da Stara Zagora, e hanno tutti i documenti in regola. Sono
braccianti stagionali. Alcuni riescono a trovare lavoro regolare, molti altri
soltanto a nero. Ma non si capisce perché ancora adesso molti continuino a
ripetere che questo è un «campo nomadi». Non ci sono nomadi nella favela di
Stornara, né di etnia Rom né di qualunque altra etnia. Al contrario, questi
ubbidienti braccianti bulgari che vengono qui a lavorare nei campi e si portano
dietro i figli piccoli sono più stanziali degli autoctoni. Tanto stanziali che
per rimanere in questa discarica chiamata «campo» devono pagare 50 euro a testa
a chi passa a riscuotere questa infame «tassa di soggiorno» vantando non meglio
specificati «diritti» sull’area della baraccopoli. Hristov e Alina non
sarebbero morti, e a Stornara e altrove non vi sarebbe una vera e propria
emergenza umanitaria, se le istituzioni avessero fatto ciò che da anni chiedono
i lavoratori agricoli stagionali stranieri: un insediamento di prefabbricati
come quelli per i terremotati, magari incaricandone la Protezione civile, con
acqua, corrente elettrica, servizio di raccolta dei rifiuti. Per vivere da
umani. Per non morire bruciati vivi.
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