domenica 24 febbraio 2013


FRANCESCO DIPALO SU UN TRALICCIO DELL’ALTA TENSIONE PER PROTESTA
Dopo il diritto al voto di fatto negato agli studenti in Erasmus ed a quelli fuori sede, stessa sorte tocca ai testimoni di giustizia e loro famigliari lasciati vergognosamente nell’assoluta precarietà. Francesco Dipalo, testimone di giustizia ha scritto al Presidente della Repubblica e per protesta da due giorni è salito su di un traliccio dell’alta tensione nei pressi della località protetta. Chi dice di amare questo Paese e di volerlo governare che sia di destra, sinistra, centro, grillini, liste civiche, non rivolga il suo sguardo altrove. In ogni parole della lettera scritta da Francesco al Presidente Napolitano vi è tutto il fallimento di un sistema che ha smesso di difendere i cittadini onesti. Francesco ha posto la sua vita e quella dei suoi a rischio per onorare la verità e servire lo Stato. Suo fratello Alessio a cui due sgherri avrebbero dovuto sparare continua da Radio Regio Altamura a denunciare la collusione tra politica, affari e consorteria che ha inquinato la moralità della Murgia.
Condizioni di vita quelle di Francesco Dipalo drammatiche per sè e per la sua famiglia dovute che alcuni funzionari del Ministero dell’Interno sembrano descrivere come una cronica e costante mancanza di fondi a garanzia di un dignitoso servizio di protezione. Chiediamo agli organi di stampa di dare ampia diffusione alla notizia e alle Istituzioni di intervenire al più presto.
LA LETTERA A NAPOLITANO: NON ABBANDONATEMI!
Ill.mo Presidente Napolitano,
Le scrivo, gentile Presidente, per parlarle della mia drammatica situazione dei testimoni di giustizia.
La mia storia purtroppo non è diversa da quella di altri testimoni di giustizia che per senso civico o sensibilità istituzionale hanno sentito il dovere di testimoniare esponendo se stessi e le loro famiglie alle ritorsioni delle organizzazioni criminali. Sono stato inserito, unitamente ai mie famigliari, nello Speciale Programma di Protezione nel dicembre del 2009 su richiesta del Pubblico Ministero titolare delle indagini la dott.ssa Desirèe Digeronimo della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e dalla Direzione Nazionale Antimafia. La mia testimonianza è stata determinante per il rinvio a giudizio di una organizzazione criminale che per anni imperversava ad Altamura in provincia di Bari, inoltre i Giudici del Riesame del Tribunale di Bari hanno di recente emesso una ordinanza di custodia cautelare in carcere per tutti gli imputati, disponendo per uno di loro anche il sequestro dei beni per oltre 35 milioni di euro. Lei Signor Presidente si ricorderà di Altamura perché è stato in visita ufficiale il 1 ottobre del 2009. In quel periodo io ero già stato sottoposto a programma di protezione nella mia città prima di essere trasferito in località protetta. Devo premettere che io ho un fratello giornalista, Alessio, che da anni anche lui denuncia pubblicamente le collusioni tra criminalità organizzata, politica e imprenditoria deviata, ed è stato vittima anch’egli di brutali aggressioni da parte del clan, un collaboratore di giustizia ha dichiarato agli inquirenti che lo dovevano sparare. In occasione della sua visita io e mio fratello siamo stati controllati a vista per tutta la durata della sua permanenza ad Altamura, io dagli uomini del nucleo operativo protezione Puglia e mio fratello da uomini della Digos a bordo di una moto di grossa cilindrata identificati dalla locale guardia di finanza su richiesta di intervento di mio fratello perché aveva notato di essere costantemente seguito. Bene Signor Presidente mentre le autorità locali hanno disposto questi provvedimenti a nostro carico, Lei, in assoluta inconsapevolezza e buona fede, ha stretto la mano a alcuni dei principali imputati del procedimento penale in corso dove io e mio fratello ci siamo costituiti parte civile e nel quale sono testimone di giustizia. Ovviamente questi provvedimenti sono stati applicati per evitare che io o mio fratello potessimo in qualche modo avvicinarLa. Aspettiamo ancora di sapere chi ha ordinato quei provvedimenti nei nostri confronti. Quando sono stato condotto in località segreta con mia moglie e i miei tre figli di 30, 25, e 23 anni, mi sono subito reso conto che eravamo stati affidati a funzionari dello Stato privi di sensibilità e di umanità. Arrivati a destinazione ci hanno sistemato in una struttura ricettiva dove per ben sei mesi siamo stati lasciati senza documenti e senza tessere sanitarie. Gli uomini del nucleo operativo di protezione ci hanno dettato delle regole da seguire tra le quali le più rigide erano quelle di non rivelare a nessuno, neanche ai parenti più stretti dove eravamo. Prima di partire io ero in procinto di essere sottoposto ad un intervento chirurgico e avevo esposto agli uomini della protezione questa mia esigenza. Per ben sei mesi nessuno ha fatto nulla e siamo stati lasciati letteralmente soli senza documenti e tessere sanitarie. Le mie condizioni erano peggiorate e non potevo più muovere la gamba sinistra. A nulla sono valse le varie richieste di aiuto il tal senso al nucleo operativo di protezione. Non potevo andare al pronto soccorso perché privo di documenti e perché mi avevano obbligato di non rivelare a nessuno la mia reale identità compreso ai pubblici ufficiali. Questa situazione è andata avanti per mesi e i dolori ormai erano insopportabili. Poi mi sono rivolto ad uno specialista a pagamento che mi ha prescritto una cura in attesa di essere sottoposto ad intervento chirurgico. Le cure mediche avevano dei costi è ho fatto presente al nucleo operativo di protezione che avevo assoluta necessità di acquistare i farmaci. Mi hanno risposto che non c’erano soldi e che dovevo arrangiarmi. Chiaramente non potevo chiedere aiuto ai miei parenti perché per farmi inviare i soldi avrei dovuto rivelare la località segreta e conseguentemente mi avrebbero revocato la protezione. La minaccia della revoca della protezione è sempre costante da parte dei funzionari del Ministero dell’ Interno. Ill.mo Signor Presidente per far fronte alle cure sanitarie io e mia moglie abbiamo dovuto impegnare le fedi nuziali e l’oro che avevamo con noi al banco dei pegni e il Servizio Centrale di Protezione non ci ha mai più messo nelle condizioni di poterle riscattare. I fatti che Le ho appena esposto, sono stati da me dettagliatamente riferiti alla Commissione Centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione presso il Ministero dell’ Interno, presidente della commissione era il Sottosegretario on. Alfredo Mantovano. Ill.mo Signor Presidente sono trascorsi tre anni da quel tragico episodio, e nulla è cambiato, anzi la situazione è peggiorata e ha travolto anche i miei famigliari. Perché anche loro devono pagare per le mie scelte di aver denunciato?. Mia moglie e i miei figli sono già state vittime di brutali pestaggi da parte delle persone da me denunciate e non è giusto che continuino a soffrire. Il.mo Signor Presidente essere sottoposti a programma di protezione provoca inevitabilmente effetti devastanti a livello emotivo e psicologico e non si è sufficientemente assistiti rispetto al trauma subito. Il comportamento dei funzionari del Servizio Centrale di Protezione ha anche contribuito pesantemente a compromettere il futuro affettivo dei miei figli. Ci sentiamo abbandonati dallo Stato, quello Stato in cui ho sempre ostinatamente creduto nonostante le ritorsioni subite. Non si può suggerire a commercianti, artigiani, imprenditori vittime del racket a denunciare per poi abbandonarli al loro destino. Non è giusto. E’ stato negato a me e ai miei famigliari anche il diritto al voto perché non ci sono i soldi per organizzare la nostra trasferta nel comune di residenza. Tutto questo in piena violazione dell’ art. 48 della nostra costituzione. E’ da mesi ormai che presento istanze al Servizio Centrale di Protezione, ho inviato raccomandate alla Commissione Centrale, ho inviato decine di mail alla segreteria del Ministro Cancellieri, nessuno mi ha mai risposto. Non rispondono più neanche ai Carabinieri della mia scorta che stanno vivendo da vicino la mia drammatica situazione. Nei giorni scorsi un funzionario del Nucleo Operativo di Protezione ha riferito testualmente: “ ti puoi anche mettere una corda al collo a Roma non ti risponderà mai nessuno”. Ill.mo Signor Presidente, io non mi metto la corda al collo perché amo profondamente mia moglie e i miei figli. Ill.mo Signor Presidente tutto questo non può e non deve più continuare, lo Stato mi deve rendere degno per quello che ho fatto sacrificando la mia famiglia, me stesso e la mia azienda, e non può continuare ad umiliarci. Per questo Le chiedo Signor Presidente di intervenire.
Località protetta, 23 febbraio 2013
Francesco Dipalo