martedì 24 settembre 2013

BENI CULTURALI
LA MURGIA CHE NON TI ASPETTI
ATTACCHI DI OGNI GENERE
Le rupi interessate dalle primitive forme d’arte sono state anche pesantemente incise dai chiodi di improvvisati rocciatori
DIFFUSA INDIFFERENZA
L’intervento atteso della Sovrintendenza fino ad oggi non c’è stato. E così i reperti ritrovati sono dispersi in vari luoghi
CAVONE, INCISIONI RUPESTRI A RISCHIO
Spinazzola, studiate dall’Università di Pisa ma poi dimenticate dal Comune
di Cosimo Forina
Cosa c’è di più prezioso se non le testimonianze del passato? Eppure del patrimonio storico e archeologico della città e del suo territorio sembra che si possa fare impunemente scempio. Sulla Murgia, in località “Cavone ”, zona Parco, in un rifugio scavato nella roccia nel 2006 sono state scoperte delle incisioni databili all’Età dei Metalli. A leggerne lo studio condotto dall’Università di Pisa pubblicate sul Bullettino di Paleontologia del 2008 la loro unicità avrebbe dovuto quanto meno imporre la loro tutela e conservazione. Ed invece sulla parete in cui sono contenute sono spuntati una infinità di perni da alpinisti, ben piantati sui massi, utilizzati probabilmente da scalatori della domenica che proprio li hanno deciso, ignari almeno si spera, di esercitarsi nelle loro specialità. Proprio così. C’è da chiedersi chi può aver autorizzato l’impresa e come mai la zona non sia stata segnalata ed interdetta da simili attività.
Sul riparo delle incisioni come sul sito limitrofo dell’Età del Bronzo portato in luce contemporaneamente qualche anno fa, l’Ente Parco dell’Alta Murgia ha previsto un progetto per rendere il tutto fruibile. Il Comune di Spinazzola invece dopo aver finanziato in parte la ricerca dell’Università di Pisa non ha poi fatto nulla successivamente per la tutela e la valorizzazione. Vero, questo non rappresenta una novità. Basti pensare alla infinità di reperti archeologici che scoperti sul suo territorio, finanche nel cuore della città, dal Neolitico di Grottelline, Età del Bronzo del Garagnone e Castello, Santissima epoca Romana, per incuria e sentenza del magistrato sono finiti regolarmente per mancanza di un museo, ma questo non rappresenta giustificazione solo amara colpa, negli scantinati, pardon, depositi della Sovrintendenza tra Gravina ed Altamura. Che brutta condanna per la città depredata delle sue testimonianze. La Murgia non è nuova a raccontare la presenza dell’uomo organizzato in forma stanziale nei millenni, tanto con villaggi arcaici che con particolari sepolcri e architetture rupestri che giungono sino ai nostri tempi. Le incisioni di Spinazzola rappresentano forse la prima forma di scrittura o esposizione grafica se si preferisce, in cui viene narrata la sua organizzazione e convivenza con esseri simili, con il mondo animale e vegetale che lo circondava. Ma queste cose per il loro valore storico e culturale, valle a spiegare a chi ha mostrato finqui inadeguatezza. Ed in vero per queste antichità non è che bella figura ci ha fatto nemmeno la Sovrintendenza. Tra un balzello e l’altro, oltre a portarsi via ogni reperto rinvenuto, non ha mai inteso riconoscere, fin qui, come per legge, nulla a chi ha segnalato la scoperta. L’Università di Pisa sulle incisioni era arrivata a queste conclusioni: «nel caso del Cavone
tuttavia l’associazione tra stelle, clessidre, losanghe e antropomorfi sembra essere del tutto contemporanea e voluta nella realizzazione di una scena il cui significato resta ignoto: potrebbe essere una cerimonia, o una scena di caccia, ma si potrebbe ipotizzare addirittura l’evocazione di una battaglia tra gruppi diversi». C’è dell’altro? Con la Murgia che cela ancora integra la sua storia c’è sempre dell’altro. Non molto lontano dalle incisioni e dai ritrovamenti dell’Età del Bronzo sono state rilevate, da ultimo, mostriamo qui alcune fotografie, alcune pietre allineate come a costituire dei recinti. Da escludere una qualsiasi similitudine con i muretti a secco tipici della Murgia. Potrebbe trattasi di altre interessanti aree archeologiche che andrebbero persino a coincidere con alcune delle ipotesi avanzate dall’Università di Pisa. Il dilemma per lo scopritore questa volta è se vale la pena segnalare da subito il tutto alla Sovrintendenza o meno. Il rischio che se verrà rinvenuto
qualcosa, ancora una volta i reperti verrebbero portati via da Spinazzola. Altra possibilità è attendere che il Comune si doti di un museo dove conservare i reperti. Ed un progetto in tal senso è stato presentato dall’attuale amministrazione e pare essere giunto persino ad un buon punto nel suo iter di approvazione. Certo la curiosità di sapere cosa cela la terra anche in queste ultime e casuali osservazioni è tanta. Però l’idea di veder passare tutto sotto il naso e veder arricchita ulteriormente altra città a discapito di Spinazzola non rallegra affatto. Ai primitivi della Murgia, che da qualche millennio riposano tranquilli probabilmente toccherà ancora attendere prima di essere testimoni del loro tempo. In questa epoca, tempi amari per il disamore fin qui mostrato per la storia, meglio non rischiare. Per gli arrampicatori domenicali si auspica che siano fermati prima che con i loro trapani e chiodi, producano altri irreparabili danni al patrimonio della città come quelli causati dall’incapacità e dall’indifferenza.

SPINAZZOLA LE PARTI SALIENTI DELLO STUDIO EFFETTUATO DALL’UNIVERSITÀ DI PISA
«SIMBOLI ATTRIBUIBILI ALL’ETÀ DEI METALLI»
Ecco le parti salienti dello studio sulle incisioni di Spinazzola condotto dell’Università di Pisa: «il lavoro presenta le recenti ricerche svolte in località Il Cavone, a Spinazzola, dove è stato individuato un piccolo riparo sotto roccia nel quale un masso con superficie lisciata reca numerose sottili incisioni. Sul pianoro soprastante sono stati condotti saggi archeologici che hanno rivelato la presenza di un insediamento dell’età del Bronzo. Sulla base delle associazioni dei simboli e dei confronti, la maggior parte delle incisioni è attribuibile all’età dei Metalli». La similitudine tra Spinazzola e gli altri siti: «Tutti questi simboli trovano agevolmente confronti nell’arte rupestre del Levante spagnolo, della Francia meridionale e in alcune località della Liguria e dell’arco alpino: sono comuni a parecchi siti gli antropomorfi schematizzati, anche quelli con mani e piedi evidenti, i reticoli, gli zig-zag contrapposti, le file di losanghe, le frecce, i pentacoli e le clessidre, i pettiniformi o alberiformi. In alcuni casi, soprattutto nella Penisola Iberica, sono ben riconoscibili scene di caccia al cervo o scene di battaglia, ma quasi sempre le sovrapposizioni sono complesse e l’identificazione dei rapporti non è sempre agevole, tanto più che spesso si trovano incisioni di epoche diverse fino ad età recenti. In via preliminare si può osservare che molti dei soggetti individuati nel masso inciso del Cavone trovano confronti puntuali in vari siti dei Pirenei orientali (Peyra Escrita, Formiguères, Font-Roja, Caixas), dell’Hérault (Grotte aux Oiseaux), e in diverse grotte dell’Ariège (Sainte-Eulalie, Grand-Père, ecc.) dove sono presenti tutti questi simboli, molto spesso organizzati in scene complesse. Particolari risultano le associazioni di antropomorfi con uomini a vicino al capo: per essi si può citare a titolo esemplificativo il confronto con una figura della Grotta di Sainte-Eulalie, per la quale è stata avanzata l’ipotesi di un guerriero che tiene in mano una testa tagliata. Anche al Monte Bego sono numerosi gli antropomorfi raffigurati: si hanno
moduli a semplici, moduli filiformi con mani e piedi, segni a pettine antropomorfo. In Liguria, all’Arma della Moretta e a Orco Feglino, si trovano figure a freccia e antropomorfi filiformi che in alcuni casi sembrano impugnare armi. Sovrapposizioni di incisioni sono note anche in Lunigiana (Toscana): nella Grotta di Diana presso Canossa si distinguono figure a balestra, reticoli e coppelle. Per l’Italia centro-meridionale si conoscono soprattutto figure in genere isolate o non raggruppate, sovente dipinte in rosso, piuttosto frequenti verso la Maiella e in Umbria1». La datazione: «gli elementi incisi individuati, per lo stile e l’iconografia, con molta probabilità possono essere ricondotti ad un momento dell’età dei Metalli, tra Eneolitico ed inizi dell’età del Bronzo, ma la datazione di questi complessi è ancora problematica per la maggior parte dei casi, dato che alcuni di questi simboli come i pentacoli e i cruciformi continuano fino in epoca storica». Ma cosa rappresentano: «l’ipotesi che si tratti di una cerimonia potrebbe essere avvalorata dalla presenza dei
personaggi isolati alle estremità sinistra e destra della composizione, nonché dal fatto che delle quattro figure centrali, che sembrano distese, due abbiano la testa ben evidenziata a disco raggiato o a triangolo e stelle a cinque punte evidentemente connesse al corpo. Gli altri personaggi disposti intorno sono in movimento e potrebbero simulare una danza. Inoltre la fitta presenza di clessidre, stelle a cinque punte e file di losanghe nell’area dove sembra svolgersi la parte centrale della scena riveste verosimilmente un significato simbolico. Un raffronto relativo a una probabile scena cerimoniale potrebbe essere istituito con lepitture in rosso del Riparo di Pacentro (Aquila) dove un gruppo di personaggi ammantati sembra trovarsi in atto di preghiera: una figura con braccio teso si trova isolata poco distante dal gruppo». La seconda ipotesi: «un riferimento invece ad una scena di caccia o a un sacrificio potrebbe essere visto nel recinto che racchiude lo zoomorfo e verso il quale sembrano correre quattro figure in movimento. Un altro zoomorfo si trova all’estremità destrae sembra “cavalcato ” da un piccolo antropomorfo e sparsi su tutta l’area vi sono numerosi segni pettiniformi che potrebbero al limite essere considerati stilizzazioni di cervi». Terza supposizione: «una scena di guerra potrebbe altresì essere tenuta in considerazione per il fatto che personaggi provvisti di ornamenti sembrano essere armati e circondare i quattro distesi. Scene di caccia, di guerra e di vita quotidiana sono ben note soprattutto nell’arte levantina, ma con stili differenti da questa in esame; molti simboli tuttavia sono comuni ad un vasto areale e indicano l’insorgere di nuove concezioni che riguardano nuovi aspetti sociali e ideologici. Si può notare che spesso, nelle scene di gruppo, si distingue un personaggio centrale, più ricco nei dettagli degli altri e che potrebbe simboleggiare una gerarchia o un guerriero eccezionale. Nel caso del Cavone si distinguono bene i personaggi con ornamenti e armi, quelli in posa di orante e quelli con particolari speciali (testa a maschera, doppio simbolo antropomorfo, stella o clessidra associata).Ovviamente l’interpretazione è molto difficile, ma sembra probabile che tutto il complesso si riferisca piuttosto a una sorta di cerimoniale in cui sono evidenti le differenze tra i vari personaggi, cerimoniale che appare controllato dalle figure isolate ai margini e reso evidente dall’abbondanza di simboli. Resta complicato inoltre spiegare il significato dell’associazione degli zoomorfi con gli uomini e la fitta concentrazione di simboli nello spazio centrale delimitato dagli antropomorfi».


domenica 8 settembre 2013


CAPORALATO
SPINAZZOLA, I NUOVI «SCHIAVI»
LA SISTEMAZIONE
I più hanno trovato sistemazione nel «Ghetto», villaggio in abbandono di Borgo Boreano a confine tra Palazzo San Gervasio e Venosa
I CLANDESTINI
Tra i braccianti agricoli migranti, molti sono già clandestini. In tanti, però, lavorano in Italia, specie nel nord, come metalmeccanici
GLI «INVISIBILI» INVADONO I CAMPI
Sono quasi duemila i braccianti agricoli migranti giunti per la raccolta del pomodoro
di Cosimo Forina
SPINAZZOLA. Senza solidarietà domina il caporalato. E qui l’illegalità ha vinto: per complicità, sottomissione e indifferenza. C’è un mondo di invisibili ridotti in schiavitù che spinti dalla necessità del lavoro è disposto ad accettare condizioni disumane. E’ il popolo dei braccianti agricoli migranti, braccia per lo più di giovani del Burkina Faso, Mali, Costa D’Avorio, Ghana e Sudan, arrivati in quasi duemila anche quest’anno per la raccolta del pomodoro e non solo. I più hanno trovato sistemazione nel villaggio in abbandono di Borgo Boreano a confine tra Palazzo San Gervasio e Venosa ribattezzato«Il Ghetto».
Altri, sono sparsi in masserie diroccate o nei casolari di campagna, anche di Spinazzola, circa 500, i pochi ancora in piedi dopo l’ordinanza del sindaco del 2011 che così intendeva attuare la sua azione
di respingimento: senza corrente elettrica, servizi igienici, acqua potabile.
Per gli «invisibili» tutto ha un costo. Per essere portati sui campi dove spaccarsi la schiena dall’alba al tramonto: 5euro. Per una tanica in plastica, contenitori di prodotti chimici agricoli, in cui poter tenere l’acqua da bere: dai 3 ai 5euro. Per ricaricare la batteria del telefonino: dai 10 centesimi ad un euro. Per una improvvisa corsa in ospedale: dai 10 ai 15euro. Le braccia, i lavoratori migranti, sono approdate qui poco prima del 15 agosto per ripartire a metà ottobre, provenienti da Nardò (Le) dove hanno raccolto angurie.
Caricati come bestie da soma in quindici-venti su furgoni senza finestrini sono già stati usati nella raccolta delle cipolle tra Margherita di Savoia, Zapponeta e Chieuti. Ore estenuanti di viaggio, senza conoscere la meta. Ed ora è la volta del pomodoro, dei peperoni, poi ci sarà la raccolta degli agrumi a Rosarno (Reggio Calabria) e per gli stessi schiavi impegnati nel raccolto della patata novella a Cassibile una frazione di Siracusa, il girone infernale sembra non avere fine.
Per loro non ci sono diritti, assistenza, se non quella offerta dal volontariato.
L’unica legge da rispettare è quella imposta dal caporale che paga 3,50euro a cassone pieno di pomodori per incassarne 6 dall’agricoltore. Un giro di affari vertiginoso nella più totale illegalità. Il calcolo medio del 2011 ha rilevato che su 600 ettari coltivati a pomodoro a Palazzo San Gervasio gli agricoltori hanno pagato circa 1.600.000 euro per la raccolta, di questi ben 700mila sono finiti nelle tasche del caporale, dei suoi sottotenenti e di chi sfrutta all’interno del gruppo dei lavoratori i suoi stessi concittadini. Trecento gli ettari di pomodoro quest’anno a Spinazzola.
Strane cose succedono nei campi, si denuncia a filo di voce, se si vuole fare di testa propria, senza passare dal giogo del caporale può succedere di tutto. Già strane cose. E di persone scomparse, come il ritrovamento di qualche cadavere non è di certo mancato sulla terra di nessuno.
La mappatura degli ettari coltivati a pomodoro anche quest’anno tra la provincia di Potenza e quella di Barletta-Andria-Trani ben potrebbe indicare la forza lavoro necessaria alla raccolta dell’oro rosso. Ed invece le assunzioni regolari sono bel al disotto di ogni parametro matematico. Tra i braccianti agricoli migranti, molti sono già i clandestini, in tanti però lavorano in Italia specie nel nord come metalmeccanici. A partire dalla crisi del 2008 gli ex operai si sono trasformati per ragione di sopravvivenza in braccianti. Dopo la rivolta di Rosarno i migranti avevano ottenuto un permesso di soggiorno per due anni, prossimo in scadenza. Per chi non potrà dimostrare di aver lavorato, per mancanza di ingaggio, si prospetta la via della clandestinità. Ancora una volta la terra degli schiavi parla di umiliazioni.
Nel 2009 è stato chiuso il centro di accoglienza di Palazzo S. Gervasio capace di ospitare ed offrire
servizi anche a 500 persone. Trasformato in Centro Identificazione ed Espulsione (CIA) con la modica spesa di qualche milione di euro, la struttura è inutilizzata.
Dal 2009 ad oggi la precarietà dei lavoratori migranti tra Spinazzola e Palazzo San Gervasio è aumentata in modo vergognoso. Aumentate le azioni di respingimento. L’illecito ha incancrenito un
territorio dove valori e morale avevano ancora un senso. E forse ancora un senso c’è, se si smettesse di girare la testa dall’altra parte, rendendo questi lavoratori uomini visibili.

« L’INDIFFERENZA AGEVOLA LO SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI DA PARTE DEI CAPORALI CON CONSEGUENZE DISUMANE»

La relazione dell’Osservatorio Migranti di Palazzo San Gervasio fotografa il dramma sul territorio

A voler reagire alla condizione disumana in cui versano i lavoratori migranti il comune di Spinazzola, che nei giorni scorsi ha presentato con l’assessore Giuseppe Blasi e l’associazione Onlus «Michele Mancino» Osservatorio Migranti Basilicata di Palazzo San Gervasio la relazione conclusiva del progetto di accoglienza in favore dei lavoratori agricoli stagionali migranti 2012. Unica rappresentanza sindacale presente la Flai-Cgil da sempre impegnata nei confronti dei lavoratori, mentre a dare inspiegabilmente buca la «Coldiretti» e la «Cia».
Ed è toccato a Gervasio Ungolo, della «Michele Mancino» fotografare il dramma sul territorio: «dopo la chiusura del Centro di Accoglienza di Palazzo San Gervasio, il fenomeno sembra essersi spostato presso Borgo Boreano. Le condizioni di lavoro, i contratti, le basse remunerazioni, agevolano lo sfruttamento dei lavoratori da parte del caporalato, con conseguenze a dir poco aberranti per la dignità di queste persone. Ridotte in condizione di vera e propria schiavitù». Nel corso del 2012 la provincia Barletta-Andria-Trani ha finanziato su richiesta e coordinamento del Comune di Spinazzola, purtroppo non reiterato per il 2013, interventi per migliorare la condizione dei migranti. Il territorio di Spinazzola e quello di Palazzo San Gervasio rappresentano il confine tra due province, quella della Bat e quella di Potenza. Il primo rilievo posto in evidenza la disparità di attenzione tra migranti che stazionano dall’una o dall’altra parte, pur in casolari lontani pochi metri.
Mentre sul versante Lucano vi è possibilità di dare assistenza, nel versante pugliese i diritti sono maggiormente negati. Da questo la necessità di un incontro tra le due province a fine di programmare interventi congiunti. Sul versante Spinazzola, quando a guidare la città era il centrosinistra, nel corso del 2011 vi è stato un aumento sistematico di controlli e azioni di respingimento dei migranti. Questo ha portato ad una maggiore presenza di persone in agro di Palazzo San Gervasio. Il progetto del Comune, gestito dalla “Michele Mancino” si è spinto nel dare servizi alle persone di tipo legale ed informativo. Oltre ad uno sportello informativo fisso si è raggiunto i lavoratori nei campi offrendo loro principalmente informazioni. Come sulla sanatoria (decreto legge 109/2101), progetti di rimpatrio assistito, disponibilità alla Sportello Unar, assistenza legale, consulenza legale sul lavoro. Informazioni diffuse anche con diversi stampati tradotti in più lingue. Così come si è cercato di sensibilizzare le imprese agricole nella lotta al caporalato.
La Flai-Cgil provinciale con Gaetano Riglietti ha insistito sul richiamo alla legalità, denunciando lo sfruttamento dei lavoratori, la mancanza di tutele che alimentano una enorme evasione fiscale e contributiva. A sostegno di tale posizione quella di Vincenzo Damato e Domenico Guglielmi, sempre della Flai-Cgil, i quali hanno insistito sulla necessità di agire sull’imprenditore agricolo che deve es-sere costretto in qualche modo al rispetto delle regole contrattuali. A concludere il vicesindaco Michele Patruno: «Non è con l’azione repressiva che è possibile risolvere questo problema. Le imprese non in buona fede potrebbero trovare soluzioni per aggirare i vincoli. E’ necessario sensibilizzare le associazioni di categoria, gli imprenditori e informare in maniera capillare i lavoratori in merito alle opportunità previste dalle normative». Da questo la proposta da parte di Patrono di organizzare a Spinazzola il convegno “Educhiamo alla Legalità”, finalità: divulgare le informazioni rispetto alle normative vigenti. Contro l’odiosa presenza del caporalato a Spinazzola si è scelto di creare coscienza nei lavoratori, studiare forme di accoglienza e di supporto. Pesa la disattenzione della Regione che nonostante sia stata sensibilizzata sul problema ha scelto di non esserci e di puntare la sua attenzione in altre zone come quella del foggiano dove maggiore è la presenza dei migranti. Ma qui si vuole dare riscatto a chi nonostante privazioni, umiliazioni ed amarezze riesce, come i ragazzi di Borgo Boreano, ad accoglierti con un sorriso.

lunedì 2 settembre 2013

ALLENDE, L’IRONIA CONTRO I CANNONI
di Carlo Vulpio
La Lettura (Corriere della Sera, 1 settembre 2013)
11 settembre 1973, il golpe di Pinochet insanguina Santiago
Medico, massone, atleta, socialista libertario, fu presidente del Cile per mille giorni, poi fu abbattuto dai militari appoggiati dagli Usa. Al generale che gli intimava la resa chiese come stava con il cuore. Poi lo sfidò: dica al suo capo di venirmi a prendere di persona

Furono, quelli di Salvador Allende, presidente socialista del Cile, mille giorni che meritano di essere raccontati e studiati ancora oggi in tutto il mondo come una lezione di storia e di politica. Perché furono mille giorni in cui il Cile – un Paese povero, ma ricco di risorse (soprattutto rame e salnitro) e geloso della propria dignità – alimentò una speranza: sottrarsi alla scelta obbligata di finire sepolti o sotto le macerie materiali e morali del «socialismo reale» di stampo sovietico oppure sotto la odiosa «democratura» di élite finanziarie internazionali senza scrupoli e senza controllo.
Questa speranza, questo progetto politico non velleitario, ma forte di una storia che vedeva il Cile come una delle più antiche e stabili democrazie del mondo («il cui Parlamento – come disse lo stesso Allende in un applauditissimo discorso all’Assemblea dell’Onu nel 1972 – non ha mai interrotto la sua attività dal giorno della sua istituzione, centossessanta anni fa»), vennero disintegrati dallo scellerato colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973. Un colpo di Stato «in diretta», con il presidente Allende che, asserragliato nel Palazzo della Moneda, a Santiago, insieme con i suoi fedelissimi, alle 7:55 del mattino comincia a parlare al popolo cileno attraverso la radio e lo informa minuto per minuto su cosa sta accadendo, fino a quando, bombardato il palazzo dall’aviazione e poco prima che se ne impadroniscano i golpisti assassini, esattamente alle 9:10, Allende rivolge al Cile il suo ultimo discorso e poi sceglie di darsi la morte con un colpo di fucile.
Quel discorso «non ha alcun precedente storico, perché mai è stato pronunciato un addio come quello, sulla soglia della morte, e poi perché fra tutti i grandi discorsi politici del secolo scorso, da John Kennedy a Martin Luther King a Charles De Gaulle, quello di Allende fu l’unico discorso improvvisato». Lo sostiene Jesùs Manuel Martìnez, spagnolo, docente all’Università Cattolica del Cile e autore di Salvador Allende. L’uomo. Il politico (Castelvecchi, 325 pagine, 22 euro). «Quel discorso – dice ancora Martìnez – è eterno ed è la “colonna sonora” di questo libro». Che, diciamolo subito, è una biografia accurata, minuziosa, partecipe e lucida, basata su fonti di prima mano e in parte vissuta in prima persona dall’autore, che di Allende è stato anche amico. A riprova della robustezza dell’opera, qualora ve ne fosse bisogno, una bibliografia di 95 titoli e un indice dei nomi di sei pagine.
Sullo svolgimento dei fatti e sui responsabili del golpe – l’amministrazione americana guidata da Richard Nixon, «le multinazionali minerarie del rame, la magacompagnia telefonica Itt, una cellula del governo degli Stati Uniti diretta dal consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger», anche se quest’ultimo ha sempre negato il suo coinvolgimento – è stato scritto e detto (quasi) tutto. Poco si sa, invece, dell’uomo Allende, della sua vita privata, della sua famiglia, della sua formazione umana e politica, del suo carattere. Su questo versante, la biografia di Martìnez è davvero il libro che mancava. Ma prima di vedere come aveva cominciato Salvador Allende, occorre ancora dire qualcosa su come finì. Se non altro perché il protagonista negativo della storia fu la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, che infatti, prima con il presidente Gerald Ford nel 1974 e poi con la Commissione senatoriale Church nel 1975, non poterono che ammettere il proprio intervento in Cile per sabotarne l’economia e demolirne la democrazia. E tuttavia, nonostante questa ammissione, leggendo «la massa di documenti» si resta allibiti e indignati, scrive Martìnez, «di fronte all’arroganza, all’ignoranza e all’incompetenza di organismi e servizi che pretendevano di governare il mondo».
La giustificazione, posticcia, fasulla, fondata su malferme ragioni di Realpolitik dovute a un mondo spaccato in due dalla guerra fredda, è sempre stata quella di evitare che in America latina si formasse «una seconda Cuba». Quando invece da sempre Allende aveva escluso la via castrista per il Cile, rifiutando la geniale idea della sinistra comunista di istituire anche in Cile i soviet operai e contadini «come in Russia» e affermando fino alla noia che «non è rivoluzionario chi, con la forza, riesce a comandare temporaneamente, ma chi, giungendo legalmente al potere, trasforma il senso e la convivenza sociale, le basi economiche del Paese».
Queste parole, frutto genuino della su avversione ai totalitarismi, del suo essere non violento, marxista non ortodosso, socialista libertario e anti-leninista, contrario al monopartitismo e alla dittatura del proletariato, costeranno care ad Allende durante i suoi mille giorni di governo. Quando era già chiaro dove si andava a parare, i comunisti cileni, gli stessi che potevano vantare tra i propri militanti il premio Nobel Pablo Neruda e che erano al governo con cattolici e radicali nella Unidad Popular guidata da Allende, chiesero aiuto a Leonid Brežnev e organizzarono un incontro a Mosca tra i presidenti dell’Urss e del Cile. Ma il compagno Brežnev fu gelido. «Ogni rivoluzione – disse ad Allende – deve sapersi difendere». Allende non ebbe bisogno di altre parole, si alzò e chiuse lì l’incontro, ma poiché era davvero un hombre vertical fece ricorso alla sua professione di medico per ricambiare la cortesia: «Diagnosticò a Brežnev una forte influenza e gli consigliò un periodo di riposo», racconta Martìnez.
Ecco, questo episodio è soltanto uno dei tanti che rendono meglio l’idea dell’uomo Allende, detto Chicho, proprio come il diminutivo italiano Ciccio, da cui deriva. Un uomo che si dichiarava orgogliosamente «medico, massone e pompiere», che modellò la sua vita professionale e politica su quella del nonno, medico e massone pure lui, benvoluto e ricordato da tutti per l’abnegazione verso i più poveri.
Da ragazzo, al liceo, Salvador era stato campione nazionale giovanile di decathlon e di nuoto e come medico e politico coltivò l’idea fissa della salute per tutti (in un Paese che negli anni Quaranta aveva la mortalità infantile più alta del mondo), un tema che fu al centro della sua tesi di laurea e della sua prima, breve esperienza da ministro della Sanità e che gli valse il plauso pubblico dell’autorevole padre gesuita Alberto Hurtado, proclamato santo nel 2005, e più avanti dell’intera Compagnia di Gesù, «che in Cile, dall’inizio del XX secolo, è stato il vero motore di cambiamento – scrive Martìnez – per il suo altissimo livello sociale, intellettuale e professionale».
Su Allende, dice Martìnez, sono state riversate tonnellate di immondizia. Per fortuna era uno uomo di spirito e «grazie al clown che era in lui» spesso riuscì a neutralizzare i denigratori con una battuta, una trovata. Aveva una barca a remi, la fecero diventare uno yacht (fu El Mercurio, il giornale di Augustìn Edwards, concessionario in Cile e vicepresidente mondiale della Pepsi Cola, il cui presidente era Donald Kendall, uno dei grandi patrocinatori della carriera politica di Nixon…). Allende rimorchiò con l’auto la sua barca fino a Santiago e la «varò» davanti al Palazzo della Moneda. Anni prima, da senatore, dopo uno scambio reciproco di contumelie, aveva anche trovato il modo di affrontare in duello con la pistola il collega Raùl Rettig (ma nessuno dei due fece centro), che lo stesso Allende nel 1970 avrebbe nominato ambasciatore in Brasile. «Ma la mattina del golpe superò se stesso», ricorda Martìnez. A uno dei generali traditori, che gli intimava la resa, Allende chiese come stava con il cuore, visto che da poco aveva avuto un infarto, e come stava la sua signora. Il generale rispose con garbo e con un certo imbarazzo. Poi gli riferì il messaggio del capo dei golpisti, il noto criminale che per tutto il libro Martìnez di proposito non nomina mai. Salvador Chicho Allende rispose così: «Gli dica di non fare il finocchio e di venire a prendermi di persona».
11 settembre 1973 – Salvador Allende
9:10 A.M.
Sicuramente questa sarà l’ultima opportunità in cui posso rivolgermi a voi. La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Magallanes. Le mie parole non contengono amarezza bensì disinganno. Che siano esse un castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento: soldati del Cile, comandanti in capo titolari, l’ammiraglio Merino, che si è autodesignato comandante dell’Armata, oltre al signor Mendoza, vile generale che solo ieri manifestava fedeltà e lealtà al Governo, e che si è anche autonominato Direttore Generale dei carabinieri. Di fronte a questi fatti non mi resta che dire ai lavoratori: Non rinuncerò!
Trovandomi in questa tappa della storia, pagherò con la vita la lealtà al popolo. E vi dico con certezza che il seme affidato alla coscienza degna di migliaia di Cileni, non potrà essere estirpato completamente. Hanno la forza, potranno sottometterci, ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli.
Lavoratori della mia Patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che avete sempre avuto, per la fiducia che avete sempre riservato ad un uomo che fu solo interprete di un grande desiderio di giustizia, che giurò di rispettare la Costituzione e la Legge, e cosi fece. In questo momento conclusivo, l’ultimo in cui posso rivolgermi a voi, voglio che traiate insegnamento dalla lezione: il capitale straniero, l’imperialismo, uniti alla reazione, crearono il clima affinché le Forze Armate rompessero la tradizione, quella che gli insegnò il generale Schneider e riaffermò il comandante Ayala, vittime dello stesso settore sociale che oggi starà aspettando, con aiuto straniero, di riconquistare il potere per continuare a difendere i loro profitti e i loro privilegi
Mi rivolgo a voi, soprattutto alla modesta donna della nostra terra, alla contadina che credette in noi, alla madre che seppe della nostra preoccupazione per i bambini. Mi rivolgo ai professionisti della Patria, ai professionisti patrioti che continuarono a lavorare contro la sedizione auspicata dalle associazioni di professionisti, dalle associazioni classiste che difesero anche i vantaggi di una società capitalista
Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che cantarono e si abbandonarono all’allegria e allo spirito di lotta. Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo ha fatto la sua comparsa già da qualche tempo; negli attentati terroristi, facendo saltare i ponti, tagliando le linee ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, nel silenzio di coloro che avevano l’obbligo di procedere.
Erano d’accordo. La storia li giudicherà
Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi. Perlomeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale con la Patria
Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi
Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.
Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!
Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento
Santiago del Cile, 11 Settembre 1973