sabato 3 agosto 2019


Quanto siamo disposti ad immedesimarci per comprendere il silenzio degli altri, quello che urla la sofferenza per un nemico invisibile, che per lungo tempo non ha avuto volto, non ha avuto nome, ma che ha inesorabilmente allontanato dal mondo per farsi difesa per sé stessi e per gli altri?
Tony Rizzo nel suo “Mariposa” (Secop edizioni) raccoglie il vissuto, la testimonianza di un’amica affetta da una malattia infiammatoria rara e invalidante: la Spondilite Anchilosante, che colpisce le articolazioni della colonna vertebrale, rendendola meno mobile e flessibile con conseguente limitazione dei movimenti. Nei casi più gravi la colonna vertebrale si fonde a formare una struttura unica, con conseguente impossibilità a svolgere molte attività della vita quotidiana. Una diagnosi giunta solo dopo molti anni di ricerca senza risposte su di un corpo in continua mutazione.
È attraverso il racconto della protagonista che è possibile, non senza rimanerne frastornati dalla conoscenza e presa di coscienza di questa malattia, che si apprende che questo nemico pur non potendolo sconfiggere può essere domato se solo si ponesse vera attenzione e sostegno verso chi ne è sofferente. Quello di Rizzo è un libro che va, oltre che letto, ascoltato. Perché attraverso i codici QR stampati al suo interno con il proprio telefonino il lettore può immergersi in riflessioni sensoriali che aiutano a percepire lo stato d’animo della narratrice.
Dalla Spondilite Anchilosante non si guarisce, è una malattia che cambia improvvisamente la vita e ti pone di fronte ad un bivio che pretende una scelta da cui dipende il tuo futuro: arrendersi, non ci sono cure certe, o trovare la forza di andare oltre il muro della solitudine per riappropriarsi della propria esistenza, pur consapevoli che la lotta sarà sempre impari e imprevedibile. 
“Mariposa” questo il nome della protagonista che ha scelto di mantenere il suo anonimato, ma che non si è sottratta dal raccontare e denunciare quanto ha dovuto subire prima di raggiungere la consapevolezza della sua malattia, ci permette, attraverso il dono della sua sofferenza e del suo percorso di scoprire il coraggio della reazione. Sperare oltre ogni speranza, con la dignità di chi ama fortemente la vita diventando sprono per quella degli altri.
Sino a che nelle sue analisi non è comparsa la positività a HLA-B27 che contrassegna un corpo affetto da Spondilite Anchilosante, rimasta latente per anni, nessun medico, ripetuti ricoveri in ospedale avevano dato diagnosi ai suoi continui dolori motivando le sue sofferenze.
Ma il nemico invisibile, di per sé grave, non sarebbe stato il solo aguzzino da combattere. La somministrazione di un farmaco senza che le venisse fornita chiara indicazione di rischio, porta “Mariposa” a dover affrontare anche l’insorgenza di due tumori. Effetti “collaterali” sottaciuti dai medici che le avevano consigliato quel farmaco per lenire il dolore.
“Mariposa” era, come lei stessa si racconta, una brillante donna sempre in giro per il mondo per il suo lavoro, una donna determinata, circondata da amici e persone che non hanno mai smesso di volerle bene e a cui lei ha nascosto la sua malattia per non turbare la loro quotidianità. Almeno sino a quando non ha trovato la forza di accettarla e combatterla.
Rompere quel silenzio è stato un lento ritorno a riappropriarsi di quello che la malattia, avendola relegata nella solitudine, le impediva di vivere pienamente.
Una riconquista, una mutazione riscoperta grazie al sostegno delle cure palliative che le hanno consentito di riaffermare la propria indipendenza dalla malattia soprattutto attraverso l’ipnosi e altre cure di mantenimento.
Quelli, i farmaci biologici devastanti quanto inefficaci, sono la sua vera collera ed è contro le lobby delle case farmaceutiche che hanno esperimentato sul suo corpo, e quelli di tanti altri ad alto costo per lo Stato, che è rivolto il suo grido di attenzione. La sua battaglia per la verità affinché ad altri sia risparmiato il prezzo da lei pagato.
Mariposa in spagnolo significa farfalla. La spondilite per questa donna di coraggio è stato il bozzolo che ha avvolto la crisalide mutata poi in farfalla con l’aiuto dell’ipnosi, permettendole di spiccare il volo lontana dal dolore. Un dolore a cui non si può restare indifferenti e su cui lo Stato deve dare risposte e sostegno per rendere veramente liberi quanti sono afflitti da Spondilite Anchilosante. Una battaglia che può essere vinta.

lunedì 6 maggio 2019

Esce giovedì 9 il romanzo di Carlo Vulpio sull’artista (Chiarelettere). Il 10 viene presentato al Salone di Torino. Ne scrive l’attore Flavio Bucci, che interpretò il personaggio in tv

Anch’io sono stato Ligabue. Fu infelice, sì, ma genio della pittura

di Flavio Bucci

Quando nel 1977 Salvatore Nocita mi chiese di interpretare Antonio Ligabue non avrei mai pensato che sarebbe accaduto tutto questo. Premi, fama, successo e un legame così profondo con il pittore di Gualtieri che dura ormai da più di quarant’anni. Da quel momento il grande pubblico mi accosta sempre e inevitabilmente a lui e ancora oggi, in tour con il mio nuovo spettacolo E pensare che ero partito così bene, non c’è uno spettatore che non mi associ a lui e non mi ringrazi per quella interpretazione, che io più volgarmente chiamo esperienza. Sì, per me, far rivivere Antonio Ligabue non è stata soltanto un’interpretazione. E’ stata un’esperienza, sicuramente in assoluto la più faticosa, sia per le lunghissime sedute di trucco, ore e ore interminabili, due fasi di invecchiamento, sia per il complicato rapporto con il regista Salvatore Nocita.
Come ho raccontato a Carlo Vulpio, autore di questo bellissimo e singolare romanzo Il genio infelice (Chiarelettere) sull’artista e sull’uomo Antonio Ligabue, Nocita era un sergente di ferro, un rompiballe incredibile, uno che mi faceva girare una scena anche sette volte, una cosa che per me, abituato a lavorare con registi come Elio Petri, era inconcepibile. Petri una scena la girava una volta sola, al massimo due, anche se dopo aver provato tutto il giorno, e quando c’era qualche incertezza o una perplessità mi diceva semplicemente: «A Fla’, fa un po’ come cazzo te pare». Con Nocita invece non era così e quindi accadeva che spesso mi arrabbiavo e abbandonavo il set dove stavamo girando. Me ne andavo per giorni e lo costringevo ad aspettare il mio ritorno per ricominciare le riprese.
La vera fatica però è stata entrare nel personaggio che dovevo interpretare, o far entrare lui dentro di me. Ligabue era un uomo complesso, singolare, diverso, difficile, considerato pazzo. E a me i pazzi diciamo che mi vengono bene. Dico sempre che se non avessi fatto l’attore sarei finito anche io in manicomio. Interpretare pazzi per me è stato terapeutico e ha funzionato meglio di mille pillole o di cento sedute dall’analista.
Quanti pazzi ho interpretato, dai personaggi di Shakespeare e di Pirandello ad Aksentij Popriščin, protagonista del Diario di un pazzo di Nikolaj Gogol’. Ma questi erano tutti personaggi frutto della fantasia. Con Antonio Ligabue invece è stata la prima e unica volta in cui ho lavorato su un personaggio realmente vissuto. Attraverso Ligabue ho capito che ogni essere umano che voglia lasciare traccia del suo modo di essere, può farlo soltanto dando spazio alla sua parte artistica. E così ho cercato di fare in quel fortunatissimo sceneggiato.
Mi sono interrogato molte volte sul perché io abbia accettato ed interpretato quasi sempre personaggi borderline e oggi, a quasi 72 anni, la risposta che mi do è questa: l’uomo è andato dappertutto, la tecnologia continua ad avanzare, si può andare su altri mondi, scoprire pianeti sconosciuti, conoscere i segreti dell’universo, andare dentro la materia all’infinito, ma c’è un posto che non potrà mai essere completamente accessibile, il cervello. Questa è la grandezza dell’essere umano. «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ce ne sono in tutte le fantasticherie della tua filosofia», diceva Amleto, ed è questa la fortuna di chi interpreta personaggi simili, di chi fa teatro.
Tutto questo l’ho ritrovato e rivissuto ne Il genio infelice, di cui Carlo Vulpio è venuto a parlarmi a gennaio, mentre ero impegnato nell’ultima replica del mio spettacolo al teatro Belli di Roma, dove ho deciso di tornare dopo molti anni. E’ stato bello tornare a casa, lì dove ho cominciato, dal mio amico Antonio Salina. Sono arrivato in teatro tre ore prima. Era molto tempo che non andavo in teatro con così largo anticipo e mi è venuto in mente un aneddoto molto simpatico. Quando recitavo il Diario di un pazzo andavo in teatro tutti i giorni, anche quattro ore prima, e tutti gli addetti ai lavori – direttori, organizzatori, maestranze – pensavano quale grande professionista fossi per questo mio presentarmi in teatro tutti i giorni con ore di anticipo. Ma la verità, che non ho mai raccontato a nessuno, è che io ci andavo così presto nella speranza di poter trovare una scusa, anche banale, pur di non fare lo spettacolo, tanto era lo stress fisico e mentale di cui ero preda. Così, anche quel pomeriggio di una fredda domenica di gennaio, arrivato in teatro con molto anticipo, ho pensato di trovare una scusa per non fare lo spettacolo.
Poi nel mio camerino è entrato Carlo e abbiamo iniziato a parlare. Mi ha raccontato del suo progetto di un libro su Ligabue e mi ha subito convinto. Mi ha colpito molto la sua passione per quello che stava scrivendo e per come lo stava facendo, per le domande che mi poneva, per come anche lui era «entrato» dentro Ligabue. Mi ha anche chiesto se volessi scrivere qualcosa una volta terminato il suo libro e io gli ho risposto che non sono uno scrittore né un giornalista, e che certamente sarebbe stato inusuale che un attore scrivesse di un personaggio che ha interpretato. Ma l’idea era singolare e molto divertente. Lo farò, gli ho detto, solo se il libro mi piacerà, altrimenti non te la prendere. In realtà, avevo accettato di farlo già in quel momento, e con entusiasmo, poiché quella conversazione mi aveva assorbito al punto da farmi dimenticare di cercare una scusa per non fare lo spettacolo, e infatti sono andato in scena.
Quando ho letto il libro, mi sono reso conto per la prima volta di ciò che per decenni mi era sfuggito. Mi sono reso conto della diversità tra me e Ligabue. La mia memoria, la mia vita, le persone intorno a me, la critica e anche il pubblico hanno associato la mia figura a quella di Ligabue, la mia vita alla sua, quasi convincendomi che le nostre vite fossero molto simili.
Il genio infelice, lo ripeto, è un libro molto bello e molto preciso e mi ha fatto «vedere» anche una parte della storia d’Italia attraverso gli occhi di Ligabue. Ma io a differenza di Ligabue non sono né infelice né un genio, come dice il titolo del libro. A 72 anni sono ancora qui, a divertirmi sul palco, al ristorante, con i colleghi, con gli amici, e questo non è poco. Nel libro, Ligabue ripete spesso: «A me non mi vuole nessuno». A me, invece, dopo aver interpretato Ligabue, mi volevano tutti. Produttori e registi mi avrebbero clonato, se avessero potuto. Antonio ha fatto una vita da solitario, mentre io in teatro, e grazie a lui anche in queste righe, sto ancora raccontando la mia. Non ho vissuto una vita solitaria. Ho fatto altri errori, questo sì, ma ho avuto anche tre figli, maschi, e due mogli, femmine. Gioie che la vita, purtroppo, ha negato al genio infelice.
Corriere della Sera, 6/5/2019