mercoledì 20 agosto 2014

Un viaggio in un Paese straordinario che segnerà il futuro dell'Italia e dell'Europa
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http://www.corriere.it/reportage/esteri/2014/da-baku-a-brindisi-lungo-la-via-del-gas/

La Via del Gas, dal Caspio all’Adriatico
di Carlo Vulpio

Tutti lo chiamano Corridoio meridionale euroasiatico e sembrano «vederlo» per la prima volta soltanto oggi, ma la linea, quasi una retta, che unisce Brindisi a Baku, la capitale dell’Azerbaigian sulle rive del mar Caspio, è una «strada» che esiste da duemila anni ed è lunga quattromila chilometri.

Terminata la Via Appia, che collegava Roma a Brindisi, cominciava, attraversato il mar Adriatico all’altezza di Durazzo, in Albania, la Via Egnazia, che si fermava alle porte di Istanbul, allora ancora Bisanzio. Da qui, nei secoli successivi alla fondazione di Costantinopoli, «la Nuova Roma» che aveva sostituito Bisanzio, si sarebbero diramate una serie di altre strade verso l’Oriente, tutte rientranti nella mitologica definizione di Via della Seta, che sarebbe diventata famosa con i viaggi di Marco Polo nella seconda metà del 1200. Una di queste Vie della Seta è quella che, appunto, dalla fine della Via Egnazia corre longitudinalmente per tutta la Turchia, fino a Erzurum – Arzen per i Romani, Teodosiopoli per i bizantini e infine Arz-e-Rum, cioè il valore dei Romani, in persiano –, e dopo aver attraversato la Georgia termina in Azerbaigian. Precisamente nella regione del Gobustan, tra i blocchi di pietra millenaria e i meravigliosi petroglifi paleolitici della montagna di Boyukdash, a circa cinquanta chilometri da Baku, dove si trova la prova di quanto stiamo dicendo, una roccia con questa incisione: «All’epoca dell’imperatore Domiziano Cesare Augusto Germanicus. Il centurione Lucio Giulio Massimo, XII Legione Fulminata». L’incisione risale agli anni tra l’84 e il 96 dopo Cristo ed è la più orientale (e quindi la più lontana da Roma) epigrafe latina che si conosca. Probabilmente l’unica in tutto il Caucaso, poiché i Romani si erano spinti fin quaggiù per controllare l’unico passo esistente tra Caucaso meridionale e settentrionale. Insomma, geopolitica anche allora, nulla di nuovo sotto il sole.

La nuova via della seta

Oggi, questo stesso cammino è tornato di grande interesse, ma in senso inverso. Da Baku a Brindisi (o meglio, a Melendugno, Lecce). La stessa Via della Seta, la stessa Via Egnazia, fuse senza soluzione di continuità in un’unica, grande Via del Gas. Il gas dell’Azerbaigian. Uno dei cinque Paesi – con Iran, Russia, Kazakistan e Turkmenistan – che si affacciano sul mar Caspio e che si dividono l’enorme quantità di gas (il 46 per cento delle riserve mondiali) stivato nei suoi fondali. E’ gas metano, di gran lunga il meno inquinante tra i combustibili fossili (non c’è paragone con carbone e petrolio), il più economico, il più facile da trasportare anche attraverso lunghi gasdotti – tubi interrati, anche sotto il fondale marino, del diametro di poco più di un metro -, il più abbondante in natura. Per l’Unione Europea, che è il terzo consumatore mondiale di energia, dopo Usa e Cina, e il cui «paniere energetico» nel 2035 sarà riempito per ben il 30 per cento dal gas, un’ancora di salvezza. Per l’Italia in particolare, che dopo la crisi libica è diventato il primo importatore di petrolio dall’Azerbaigian, un’opportunità doppia, anzi tripla, visto che si potrebbe convertire a gas (anzi, si dovrebbe, in base a un accordo del 2001, governo Prodi) sia la centrale elettrica di Cerano (la più grande d’Europa), sia quella di Brindisi Nord e persino produrre una parte dell’acciaio dell’Ilva con centrali termoelettriche alimentate a gas, già diffuse sia in Azerbaigian, sia nel resto d’Europa. Dice il ministro azerbaigiano dell’Energia, Natig Aliyev: «Questo progetto è davvero la nuova Via della Seta, perché cambia in radice la mappa dell’energia mondiale e porta sul palcoscenico nuovi attori, come il nostro Paese, finora considerato poco e comunque meno di Iraq e Iran».
I giacimenti di gas azerbaigiano del Caspio si chiamano Shah Deniz I e II. Il secondo, ancora tutto da sfruttare, vale non meno di 45 miliardi di dollari. Il gasdotto progettato, e in parte già costruito, è composto da tre «tronconi», BTE (Baku-Tblisi-Erzurum), TANAP (Trans Anatolian Pipeline) e TAP (Trans Adriatic Pipeline). Sarà concluso nel 2018 e già l’anno successivo trasporterà dieci miliardi di metri cubi di gas, che potranno essere raddoppiati. Una quantità di gas pari al 15% dell’attuale consumo annuo dell’Italia (70 miliardi di metri cubi), che potrà quindi aumentare l’impiego di metano al posto di carbone, olio combustibile e petrolio e potrà smistarlo anche ai Paesi vicini, evitando così inutili e dannose perforazioni alla ricerca di petrolio di scarsa qualità in Adriatico e consentendo all’Unione Europea di avere un forno in più (e di quale portata) da cui comprare il pane, senza l’ansia di dover dipendere dal buon cuore della Russia o dalle sorti di Libia e Algeria. Il gasdotto servirà, con altrettante diramazioni, anche i Paesi balcanici e persino Israele e Iran, che certo non si scambiano affettuosità.

Non solo petrolio e gas


Questa Via del Gas però non è soltanto un nuovo asse energetico-commerciale, e quindi geopolitico, della massima importanza. E’ anche un grande canale culturale, un fascio di nervi e di neuroni che per lungo tempo è rimasto pressoché inattivo, e invece percorre e lega due mondi diversi, che da secoli hanno in comune molto più di ciò che essi stessi credono. Che sia stata progettata da diverse società multinazionali riunitesi in consorzio – tra le quali, la società di Stato azerbaigiana Socar – non vuol dire che sia opera del demonio.
Significa, più semplicemente, che oggi sta avvenendo con il gas ciò che, sempre qui, avvenne già ieri, quando, era il 1995, da poco implosa l’Unione Sovietica, l’Azerbaigian inaugurò la cosiddetta «politica delle porte aperte» e per sfruttare al meglio il proprio petrolio (trattenendo per sé il 30 per cento dei ricavi, fatto che è già passato alla storia come «il contratto del secolo») coinvolse nel medesimo consorzio tredici compagnie di otto Paesi diversi, meritandosi l’appellativo di «Onu in miniatura» e assicurandosi così l’indipendenza vera, quella economica, che gli avrebbe procurato anche quella politica. Significa, inoltre, non dimenticare nemmeno ciò che è avvenuto l’altro ieri, quando, meravigliati davanti ai gusher, le fontane spontanee di petrolio che sgorgano dal sottosuolo, si decise di fare la prima trivellazione al mondo (era il 1848), e poi il primo oleodotto (1879), e poi la prima raffineria per ottenere il cherosene, merito del grande Dmitrij Mendeleev, quello della tavola periodica degli elementi, e poi la prima società petrolifera, che i fratelli Robert e Ludwig Nobel, quelli del premio omonimo, crearono proprio a Baku, da dove salpò anche la prima petroliera, che i Nobel chiamarono Zoroaster, perché qui, quindici o forse diciotto secoli prima di Cristo, nacque Zarathustra e da qui si diffuse lo zoroastrismo in tutta la Persia e in gran parte dell’Asia centrale. Con il suo culto del fuoco, forza creatrice e purificatrice. Da cui il nome stesso Azerbaigian, che letteralmente significa «guardiano del fuoco», e la definizione «Terra del Fuoco» che il Paese – centrato in anticipo l’obiettivo Onu, previsto per il 2015, di «riduzione della povertà», dal 49 al 5 per cento -, ha scelto per farsi conoscere all’estero.

Alla scoperta della terra del fuoco

Il fuoco c’è davvero, in Azerbaigian, e brucia spontaneamente sulla terra argillosa della collina di Yanar Dagh, alimentato dal gas invisibile che fuoriesce dal sottosuolo. Uno spettacolo unico, incredibile, che spiega meglio di mille parole perché gli ateshparasti, gli adoratori del fuoco, non potessero che nascere qui. E perché, nonostante il Paese sia musulmano all’85 per cento, i tre quarti dei quali sciiti – benché piuttosto laico per mentalità e Costituzione -, non siano scomparsi.
E’ stato a partire da queste fiamme di questa collina poco fuori Baku, che ci siamo spinti all’interno del Paese – fin quasi al confine con la Georgia, lungo il tragitto del gasdotto che arriverà in Italia – per capire meglio cosa sta succedendo qui, quali nuovi processi si stanno mettendo in moto. Perché una cosa è Baku, con il suo centro storico patrimonio dell’Unesco – il palazzo degli Shirvanshah, la Torre della Vergine -, lo sfavillio delle sue Flame Towers e delle sue architetture ardite e bellissime, con il suo infinito lungomare e la sua contagiosa voglia di vivere, con i suoi boulevard in cui non ce n’è uno che non guidi come un pazzo appena uscito dal manicomio, e poi con i suoi alberghi e i ristoranti e i negozi e persino i pozzi di petrolio che pompano greggio a pochi metri dalle case. Ma un’altra cosa è il resto del Paese, quello più autentico, che certamente è più povero della capitale, però ha più voglia di lei, ha più «fame», e non si accontenta del riconoscimento Unesco che ha inserito i tappeti azerbaigiani nel patrimonio immateriale dell’umanità, né di aver raddoppiato il reddito annuo pro capite negli ultimi sette anni da 3.800 a 7.500 dollari, ma punta, sulla spinta di una crescita «cinese» del pil (15 per cento negli ultimi dieci anni), al tasso zero di povertà e chiede conoscenza, studi, formazione. E apertura al mondo. Si tratti dell’Eurofestival della canzone, tenutosi qui nel 2012, o dei primi Giochi olimpici europei, l’anno prossimo, sempre qui.

Quella azerbaigiana (dieci milioni di persone) è una popolazione giovane – l’età media è di 28,2 anni – che negli ultimi vent’anni, dopo il crollo dell’Urss, è cresciuta di due milioni. Centomila all’anno, e non come media statistica, ma come incremento costante. I fuochi di Yanar Dagh, dunque, bruciano anche altrove, anche oltre il campo petrolifero di Surakhani, uno dei primi e più suggestivi del Paese, un vero museo industriale in attività, dove è vietato riprendere o fotografare e, se lo fai, arrivano i poliziotti (ma abbiamo giocato d’anticipo e per fortuna ci è andata bene).
I fuochi di Yanar Dagh bruciano anche ad Ateshgah, il Tempio del fuoco, ancora affascinante nonostante l’eccessiva opera di restauro, e nel Caravanserraglio che lo circonda, con le sue stele e le sue scritte in persiano, in arabo e in ebraico, con le sue croci cristiane e i suoi cenobi per gli asceti e gli eremiti indù, o le celle in cui i mercanti in viaggio sulla Via della Seta concludevano i propri affari. E’ solo un’anticipazione della pluralità di lingue e di etnie che incroceremo. Ventisei lingue, secondo Strabone, nel solo Azerbaigian, che lui chiama Atropatene, da Atropate, luogotenente di Alessandro Magno nominato satrapo del luogo. E addirittura trenta etnie, se si considera anche l’area del Daghestan, un po’ più a Nord. E quante religioni? Più o meno tutte quelle maggiormente note, in questo crocevia del mondo, disseminate in luoghi di grande bellezza, di raffinato fascino, di antichissima storia, a testimoniare una convivenza, un rispetto e una parità di trattamento codificati anche nelle leggi e difficilmente rintracciabili in altri Paesi islamici e post sovietici. A Baku, con la moschea di Tezepir, la più grande dell’Azerbaigian, che è anche la sede del dipartimento centrale di tutti i musulmani del Caucaso, convive tranquillamente la sinagoga degli «ebrei della montagna» di Guba, mentre a Maraza, di fronte allo stupendo mausoleo del 1402 di Diri Baba, dove chiunque può fermarsi in contemplazione per il tempo che ritiene necessario, si trova uno dei più antichi cimiteri arabi. E a Khanaqa, sul fiume Pirsa’at, nella regione dello Shirvan, c’è un piccolo cenobio sufi tra i più frequentati e venerati del Paese. E poi, più avanti, dopo aver strabuzzato gli occhi davanti ai vulcani di fango, un altro fenomeno naturale unico del sottosuolo azero, ecco la città di Gabala, di cui ancora si vedono le poderose mura romane del I secolo dopo Cristo, e la chiesa di Nich che, assieme a quella bellissima di Kiş, è tra le chiese cristiane albaniche più antiche. Perché anche questo è accaduto qui, che nel Regno di Albània (sorto nel IV-III secolo avanti Cristo, da non confondere con l’odierna Albania) si affermasse il cristianesimo, al punto che l’anno successivo all’editto di Costantino (313 d.C.) qui per la prima volta la religione cristiana venne proclamata religione di Stato. Mentre a Sheki, la città della seta, del meraviglioso palazzo di Sheki Khan dalle finestre di mille colori costruito alla fine del 1700 e del Karavansaray, c’è ancora Tofiq Rasulov che fabbrica le stesse finestre del palazzo del Khan con l’antica tecnica şebeke, cioè quattordicimila pezzi di vetro (all’epoca, provenienti da Venezia) per ogni metro quadrato di finestra, incastrati in minuscoli tasselli di legno senza uso di colla. Infine, Ganja, la più antica capitale dell’Azerbaigian, e Naftalan, il cui nome dice tutto, perché in questa cittadina, fin dai tempi di Marco Polo, vengono da mezzo mondo a fare i fanghi terapeutici immergendosi nel pregiato petrolio locale, che è privo di azoto e paraffina.

Quell’ultimo miglio


Non solo gas, dunque, scorrerebbe nelle condotte della Via del Gas. Eppure, questa grande opera per nulla «impattante» (è un tubo, non un grande rigassificatore) trova l’ostacolo maggiore proprio nell’ultimo tratto – una decina di chilometri -, e proprio in Puglia, cioè la regione dello scempio eolico e fotovoltaico industriali su vasta scala e delle arcaiche centrali a carbone. Il no, che il governo trasformerà in un sì tra un mese, è venuto da quelle stesse istituzioni locali che diedero parere positivo a un altro progetto di gasdotto, poi abbandonato, che doveva approdare a Otranto. Quasi che Otranto fosse meno «delicata» di Melendugno, che fra l’altro è pure nell’entroterra. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque. E’ sempre lo stesso Grande gioco dei contrapposti interessi geopolitici. I Romani lo capirono subito e per il Corridoio meridionale euroasiatico tirarono diritto.

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