lunedì 30 aprile 2018


Quelle vite aggredite dalle pale eoliche


Paesaggi contaminati / Il rumore è assordante, l’intermittenza della luce provoca fastidiosi disturbi: siamo andati a Balvano, Potenza, dove due emigranti sono tornati a vivere. E si sono ritrovati questo davanti alle finestre. Perché qui intorno le turbine sono spuntate come funghi. La Puglia ha il numero maggiore, ma è la Basilicata che ha l’incremento più veloce


di Carlo Vulpio, la Lettura, 29/4/2018
(ha collaborato Cosimo Forina)

Balvano (Potenza)
Perché sulle Dolomiti trivenete non ci sono pale eoliche e sulle Piccole Dolomiti lucane invece sì? Non per il vento, che in Basilicata è molto più debole e in alcune aeree addirittura insufficiente a far ruotare eliche il cui diametro può arrivare a 60 metri. Non per la minore bellezza del paesaggio. Non per la morfologia delle montagne, che risalgono a 15 milioni di anni fa e le fanno molto assomigliare a quelle più famose del Nord, tanto da averne mutuato il nome. E allora perché lì non ci sono torri eoliche, e nessuno si azzarderebbe a piantarne, e invece in Basilicata (e in Puglia, Sicilia, Calabria, Sardegna, Molise, Campania — qui però fino alla legge regionale del 2016, che ha fermato lo scempio) l’eolico selvaggio si sta mangiando la terra e le montagne, riducendole a una wasteland di spettrali foreste di acciaio?
La Basilicata è irriconoscibile. Torri eoliche ovunque, alte anche cento metri, come palazzi di venti piani. O fungaie di pali di 20-30 metri (il cosiddetto «mini» eolico, turbìne al di sotto di 1 megawatt) addossati l’uno all’altro, senza regole né legge. Le torri, poco più di 500 fino all’anno scorso, adesso sono circa 700 e per un altro centinaio sarebbero già pronte le autorizzazioni. La Puglia è la regione italiana più devastata dalle pale eoliche, ma la Basilicata, con appena 10 mila chilometri quadrati di superficie e 560 mila abitanti sparpagliati in 131 Comuni, ha il primato dell’incremento più veloce di impianti in tutto il Sud, isole comprese, dove pure in sole 8 regioni si concentrano 6.400 delle 6.600 pale (dati 2017) che a volte sì, a volte no, girano in Italia.
Da Balvano a Ricigliano, a Ruoti, Pietragalla, Oppido Lucano, Tolve, Cancellara, Melfi, Venosa, Genzano, fino a Montalbano Jonico, una «tempesta di vento» sta stuprando il paesaggio sotto gli occhi di tutti, nonostante tutti sappiano che l’energia prodotta da questa fonte (per la quale lo Stato ha sborsato 1,7 miliardi di euro di sussidi a vario titolo nel solo 2017) incida soltanto per l’1,5 per cento sulla produzione nazionale totale di energia.
Quello della Basilicata è un caso esemplare, quasi perfetto, di convergenza di tutti i «fattori» necessari affinché lo scempio prosegua inarrestabile: i soldi, cioè il meccanismo di incentivi pubblici per l’eolico, che non ha paragoni nel resto del mondo; i poteri pubblici, con autorizzazioni di Comuni e Regione che comportano pesanti trasformazioni urbanistiche e sembrano fatte in serie; i privati, accecati dalle somme pagate dagli «sviluppatori», tra gli 8 e i 10 mila euro all’anno per vent’anni, con l’affitto di mille metri quadrati di terreno agricolo da «far fruttare» grazie alla torre eolica; il senso di inutilità delle denunce, considerata la inconsistente azione degli organi giudiziari; la forza di intimidazione, esercitata con minacce e pestaggi nei confronti di chiunque si opponga, agricoltori, cittadini e da ultimo i (pochi) giornalisti che osano raccontare cosa sta accadendo.


Balvano ha 1.800 abitanti e il 23 novembre 1980 fu uno degli epicentri del devastante terremoto dell’Irpinia (3 mila morti, 9 mila feriti, 280 mila sfollati). Quella sera, per la Messa delle 19.30 nella chiesa di Santa Maria Assunta c’erano 77 persone, 66 delle quali adolescenti. Morirono tutti. Sempre qui, il 3 marzo 1944, avvenne il più grave incidente ferroviario della storia italiana per numero di vittime. Il treno si fermò in una galleria, non riusciva a vincere la pendenza e 517 persone morirono come topi per l’ambiente saturo di monossido di carbonio.
Due tragedie che serve ricordare, perché piegarono la volontà anche di quelli che non volevano andarsene e che invece dopo questi lutti si arresero ed emigrarono in massa. Alcuni di loro, andati via che erano bambini, pur di tornare a vivere nella terra d’origine hanno impiegato i risparmi di decenni di lavoro per costruire qui la propria casa, sfidando la «sfortuna» di Balvano. Come hanno fatto Mario Bagnulo, 46 anni, per ventotto chef nel Nord Italia, e Giovanni Bovino, 56 anni, per trentaquattro ristoratore in Germania, rimpatriati con l’orgoglio di avercela fatta e carichi di ottimismo per il futuro. Ma proprio qui, in contrada Cupolo, in piena campagna, Bagnulo e Bovino invece che in paradiso si sono ritrovati all’inferno.
In un paio d’anni i signori dell’eolico selvaggio hanno circondato le loro case con decine di torri eoliche. I Bovino e i Bagnulo non riescono più a dormire e i loro bambini non vogliono nemmeno uscire a giocare all’aria aperta, soffrono come se vivessero in una metropoli caotica. Il rumore costante degli aerogeneratori — di cui ci siamo resi conto fermandoci qui per una giornata — penetra come un trapano nel cervello per 24 ore al giorno. A questo, si aggiunge l’effetto shadow flickering (sfarfallio dell’ombra): le eliche, girando, provocano una intermittenza luce-ombra che disturba la vista e può causare attacchi di epilessia fotosensibile.
Bagnulo e Bovino hanno denunciato tutto a tutti, all’Arpab (l’Agenzia regionale di protezione ambientale), al prefetto, agli uffici regionali e comunali e anche alla magistratura. Invano. Finora, a parte i cronisti del piccolo ma seguitissimo giornale «Basilicata24», nessuno li ha seriamente presi in considerazione. «Vogliono che ci arrendiamo per stanchezza — dicono a «la Lettura» — e che abbandoniamo le nostre case, o che magari ce ne andiamo di nuovo all’estero, così verranno zittite anche le poche voci che denunciano questa violenza contro la natura, il paesaggio e gli uomini». Ma se Bagnulo è combattivo e non demorde, e intende rivolgersi alla Commissione europea, e chiede che intervenga il capo dello Stato, e vuole scrivere anche al Papa, Bovino è scettico, deluso, stremato. Ci porta sotto a un pero fiorito, mostra il cappio che penzola da un ramo e dice: «Se non si risolve questa storia mi impiccherò qui, sotto le pale eoliche». La sua casa è circondata da 15 pale eoliche. Quindici. Concentrate in un solo ettaro di terra. Una pala ogni 666 metri quadrati.
Balvano, con Ricigliano, Muro Lucano, Bella, Avigliano, fino ad Acerenza, si trova in un luogo meraviglioso. Un’opera d’arte naturale di montagne e valli verdissime e di panorami che possono competere con quelli alpini e andrebbero tutelati allo stesso modo, come vuole l’articolo 9 della Costituzione, e che invece vengono sfregiati senza vergogna, come hanno fatto con Palmira i tagliagole dell’Isis.
Semplice il meccanismo ingannatore: si fraziona un terreno agricolo in tante particelle, che si fanno passare di mano con vorticosi cambi di proprietà, si presenta una Pas (Procedura abilitativa semplificata) o una Dia (Denuncia di inizio attività) e così una trasformazione urbanistica profonda, che cambia la caratteristica di centinaia di ettari di terreno da agricolo a industriale-commerciale, passa come fosse una piccola modifica interna di una abitazione privata. Niente Vas (Valutazione ambientale strategica) e magari una accomodante Via (Valutazione di impatto ambientale) ed ecco che sulle cime di Ricigliano lo sventramento della montagna per piantarci piloni alti 80 metri con fondazioni profonde venti, gli sbancamenti per aprire strade camionabili e tracciare cavidotti possono far nascere un «parco» eolico, pubblicizzato come fosse non un’area deforestata e violata, ma imboschita con nuove piante.
Se c’è una sentenza del Tar Basilicata che impone al sindaco, la massima autorità sanitaria del Comune, di bloccare le turbine che provocano danni acustici, non vale. E se ce n’è un’altra del Tar Marche che vuole l’impianto eolico a una distanza non inferiore a 300 metri dalla più vicina abitazione, non serve. Ma poi, dov’è qui la Regione? Dov’è il sindaco di Balvano? E quello di Tolve? E quello di Cancellara, che è anche un carabiniere in servizio e amministra un paesino di 1.200 abitanti che ha 120 pale eoliche, una ogni 10 persone?
La Regione Basilicata non ha ancora un Piano paesaggistico e una legge regionale e tarda senza motivo a dotarsene, cosicché il bluff della «energia pulita» è al tempo stesso l’El Dorado di piccole società con 10 mila euro di capitale sociale che fanno capo a fondi di investimento anonimi e la ghigliottina (letteralmente) che decapita le specie volatili migratorie e locali, come il nibbio reale, il corvo reale, il falco pellegrino, il rondone, il gheppio. Mentre il sindaco di Balvano, Costantino Di Carlo, e quello di Tolve, Pasquale Pepe — il primo del Pd ma alle ultime elezioni alacre sostenitore dei Cinquestelle, il secondo di An e velocemente passato alla Lega, con cui è diventato anche senatore —, puntano al consenso procurato dai soldi, quelli donati come «compensazioni» dalle imprese ai Comuni e quelli pagati dagli «sviluppatori» alla schiera di proprietari dei terreni agricoli da parcellizzare e riempire di torri eoliche.
Il vicesindaco di Balvano, Domenico Teta, per dire, è un esempio di trinità: da amministratore di «Tegest Energy srl» chiede l’autorizzazione per l’allacciamento dell’Enel agli impianti eolici della sua Tegest, come ingegnere cura la parte tecnica e come vicesindaco presiede la giunta comunale che deve deliberare, e che naturalmente approva: otto belle Pas per otto pale eoliche, esecutività immediata.
Non meraviglia quindi il silenzio generale che ha inghiottito il pestaggio del 15 marzo scorso subìto dall’agricoltore Giuseppe Fidanza e dai cronisti Giusi Cavallo e Michele Finizio di «Basilicata24», che a Tolve erano andati a visitare l’ennesimo cantiere di nuovi impianti eolici. Nemmeno l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa ne hanno parlato. Mentre il servizio pubblico televisivo, il Tgr Basilicata, lo ha addirittura derubricato a «lite», quando invece dalle immagini filmate con uno dei cellulari delle vittime, e messe in Rete, è evidente che si è trattato di una aggressione ancora più grave di quelle di Ostia (la testata di un membro del clan Spada a un giornalista Rai) e di Roma (lo schiaffo dell’ex ministro Landolfi a un cronista de La7). A Tolve infatti i picchiatori, che la Digos avrebbe identificato come i figli del titolare di una delle imprese che sta lavorando al nuovo parco eolico, hanno distrutto uno dei cellulari dei giornalisti — che dalla strada stavano fotografando i luoghi dei lavori — e poi li hanno inseguiti, e a calci e pugni hanno spaccato la testa al povero Giuseppe Fidanza. Un messaggio vigliacco e arrogante, come l’inarrestabile avanzata delle foreste di acciaio che stanno sfigurando il paesaggio lucano. 
Matera, però, è capitale europea della Cultura 2019.

Scheda / La situazione in Campania
La Campania, terza regione italiana per numero di pale eoliche, nel 2016, con la giunta De Luca, si è dotata di una legge regionale contro l’eolico selvaggio. Le aziende del settore hanno fatto ricorso al Tar, ma la Regione ha resistito in giudizio e ha riaffermato la necessità di evitare l’effetto-selva e di impedire la saturazione per tutelare il paesaggio. Il Tar ha riconosciuto che «il territorio è una risorsa limitata e non riproducibile, sicché se in tali zone è già stato realizzato un considerevole numero di impianti non può essere ritenuto irragionevole un divieto di ulteriori installazioni». La «risposta» è arrivata subito, con 7 attentati di stampo mafioso legati all’eolico selvaggio: mezzi incendiati, bombe e attentati a cabine e sottostazioni elettriche.

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