lunedì 2 settembre 2013

ALLENDE, L’IRONIA CONTRO I CANNONI
di Carlo Vulpio
La Lettura (Corriere della Sera, 1 settembre 2013)
11 settembre 1973, il golpe di Pinochet insanguina Santiago
Medico, massone, atleta, socialista libertario, fu presidente del Cile per mille giorni, poi fu abbattuto dai militari appoggiati dagli Usa. Al generale che gli intimava la resa chiese come stava con il cuore. Poi lo sfidò: dica al suo capo di venirmi a prendere di persona

Furono, quelli di Salvador Allende, presidente socialista del Cile, mille giorni che meritano di essere raccontati e studiati ancora oggi in tutto il mondo come una lezione di storia e di politica. Perché furono mille giorni in cui il Cile – un Paese povero, ma ricco di risorse (soprattutto rame e salnitro) e geloso della propria dignità – alimentò una speranza: sottrarsi alla scelta obbligata di finire sepolti o sotto le macerie materiali e morali del «socialismo reale» di stampo sovietico oppure sotto la odiosa «democratura» di élite finanziarie internazionali senza scrupoli e senza controllo.
Questa speranza, questo progetto politico non velleitario, ma forte di una storia che vedeva il Cile come una delle più antiche e stabili democrazie del mondo («il cui Parlamento – come disse lo stesso Allende in un applauditissimo discorso all’Assemblea dell’Onu nel 1972 – non ha mai interrotto la sua attività dal giorno della sua istituzione, centossessanta anni fa»), vennero disintegrati dallo scellerato colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973. Un colpo di Stato «in diretta», con il presidente Allende che, asserragliato nel Palazzo della Moneda, a Santiago, insieme con i suoi fedelissimi, alle 7:55 del mattino comincia a parlare al popolo cileno attraverso la radio e lo informa minuto per minuto su cosa sta accadendo, fino a quando, bombardato il palazzo dall’aviazione e poco prima che se ne impadroniscano i golpisti assassini, esattamente alle 9:10, Allende rivolge al Cile il suo ultimo discorso e poi sceglie di darsi la morte con un colpo di fucile.
Quel discorso «non ha alcun precedente storico, perché mai è stato pronunciato un addio come quello, sulla soglia della morte, e poi perché fra tutti i grandi discorsi politici del secolo scorso, da John Kennedy a Martin Luther King a Charles De Gaulle, quello di Allende fu l’unico discorso improvvisato». Lo sostiene Jesùs Manuel Martìnez, spagnolo, docente all’Università Cattolica del Cile e autore di Salvador Allende. L’uomo. Il politico (Castelvecchi, 325 pagine, 22 euro). «Quel discorso – dice ancora Martìnez – è eterno ed è la “colonna sonora” di questo libro». Che, diciamolo subito, è una biografia accurata, minuziosa, partecipe e lucida, basata su fonti di prima mano e in parte vissuta in prima persona dall’autore, che di Allende è stato anche amico. A riprova della robustezza dell’opera, qualora ve ne fosse bisogno, una bibliografia di 95 titoli e un indice dei nomi di sei pagine.
Sullo svolgimento dei fatti e sui responsabili del golpe – l’amministrazione americana guidata da Richard Nixon, «le multinazionali minerarie del rame, la magacompagnia telefonica Itt, una cellula del governo degli Stati Uniti diretta dal consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger», anche se quest’ultimo ha sempre negato il suo coinvolgimento – è stato scritto e detto (quasi) tutto. Poco si sa, invece, dell’uomo Allende, della sua vita privata, della sua famiglia, della sua formazione umana e politica, del suo carattere. Su questo versante, la biografia di Martìnez è davvero il libro che mancava. Ma prima di vedere come aveva cominciato Salvador Allende, occorre ancora dire qualcosa su come finì. Se non altro perché il protagonista negativo della storia fu la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, che infatti, prima con il presidente Gerald Ford nel 1974 e poi con la Commissione senatoriale Church nel 1975, non poterono che ammettere il proprio intervento in Cile per sabotarne l’economia e demolirne la democrazia. E tuttavia, nonostante questa ammissione, leggendo «la massa di documenti» si resta allibiti e indignati, scrive Martìnez, «di fronte all’arroganza, all’ignoranza e all’incompetenza di organismi e servizi che pretendevano di governare il mondo».
La giustificazione, posticcia, fasulla, fondata su malferme ragioni di Realpolitik dovute a un mondo spaccato in due dalla guerra fredda, è sempre stata quella di evitare che in America latina si formasse «una seconda Cuba». Quando invece da sempre Allende aveva escluso la via castrista per il Cile, rifiutando la geniale idea della sinistra comunista di istituire anche in Cile i soviet operai e contadini «come in Russia» e affermando fino alla noia che «non è rivoluzionario chi, con la forza, riesce a comandare temporaneamente, ma chi, giungendo legalmente al potere, trasforma il senso e la convivenza sociale, le basi economiche del Paese».
Queste parole, frutto genuino della su avversione ai totalitarismi, del suo essere non violento, marxista non ortodosso, socialista libertario e anti-leninista, contrario al monopartitismo e alla dittatura del proletariato, costeranno care ad Allende durante i suoi mille giorni di governo. Quando era già chiaro dove si andava a parare, i comunisti cileni, gli stessi che potevano vantare tra i propri militanti il premio Nobel Pablo Neruda e che erano al governo con cattolici e radicali nella Unidad Popular guidata da Allende, chiesero aiuto a Leonid Brežnev e organizzarono un incontro a Mosca tra i presidenti dell’Urss e del Cile. Ma il compagno Brežnev fu gelido. «Ogni rivoluzione – disse ad Allende – deve sapersi difendere». Allende non ebbe bisogno di altre parole, si alzò e chiuse lì l’incontro, ma poiché era davvero un hombre vertical fece ricorso alla sua professione di medico per ricambiare la cortesia: «Diagnosticò a Brežnev una forte influenza e gli consigliò un periodo di riposo», racconta Martìnez.
Ecco, questo episodio è soltanto uno dei tanti che rendono meglio l’idea dell’uomo Allende, detto Chicho, proprio come il diminutivo italiano Ciccio, da cui deriva. Un uomo che si dichiarava orgogliosamente «medico, massone e pompiere», che modellò la sua vita professionale e politica su quella del nonno, medico e massone pure lui, benvoluto e ricordato da tutti per l’abnegazione verso i più poveri.
Da ragazzo, al liceo, Salvador era stato campione nazionale giovanile di decathlon e di nuoto e come medico e politico coltivò l’idea fissa della salute per tutti (in un Paese che negli anni Quaranta aveva la mortalità infantile più alta del mondo), un tema che fu al centro della sua tesi di laurea e della sua prima, breve esperienza da ministro della Sanità e che gli valse il plauso pubblico dell’autorevole padre gesuita Alberto Hurtado, proclamato santo nel 2005, e più avanti dell’intera Compagnia di Gesù, «che in Cile, dall’inizio del XX secolo, è stato il vero motore di cambiamento – scrive Martìnez – per il suo altissimo livello sociale, intellettuale e professionale».
Su Allende, dice Martìnez, sono state riversate tonnellate di immondizia. Per fortuna era uno uomo di spirito e «grazie al clown che era in lui» spesso riuscì a neutralizzare i denigratori con una battuta, una trovata. Aveva una barca a remi, la fecero diventare uno yacht (fu El Mercurio, il giornale di Augustìn Edwards, concessionario in Cile e vicepresidente mondiale della Pepsi Cola, il cui presidente era Donald Kendall, uno dei grandi patrocinatori della carriera politica di Nixon…). Allende rimorchiò con l’auto la sua barca fino a Santiago e la «varò» davanti al Palazzo della Moneda. Anni prima, da senatore, dopo uno scambio reciproco di contumelie, aveva anche trovato il modo di affrontare in duello con la pistola il collega Raùl Rettig (ma nessuno dei due fece centro), che lo stesso Allende nel 1970 avrebbe nominato ambasciatore in Brasile. «Ma la mattina del golpe superò se stesso», ricorda Martìnez. A uno dei generali traditori, che gli intimava la resa, Allende chiese come stava con il cuore, visto che da poco aveva avuto un infarto, e come stava la sua signora. Il generale rispose con garbo e con un certo imbarazzo. Poi gli riferì il messaggio del capo dei golpisti, il noto criminale che per tutto il libro Martìnez di proposito non nomina mai. Salvador Chicho Allende rispose così: «Gli dica di non fare il finocchio e di venire a prendermi di persona».
11 settembre 1973 – Salvador Allende
9:10 A.M.
Sicuramente questa sarà l’ultima opportunità in cui posso rivolgermi a voi. La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Magallanes. Le mie parole non contengono amarezza bensì disinganno. Che siano esse un castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento: soldati del Cile, comandanti in capo titolari, l’ammiraglio Merino, che si è autodesignato comandante dell’Armata, oltre al signor Mendoza, vile generale che solo ieri manifestava fedeltà e lealtà al Governo, e che si è anche autonominato Direttore Generale dei carabinieri. Di fronte a questi fatti non mi resta che dire ai lavoratori: Non rinuncerò!
Trovandomi in questa tappa della storia, pagherò con la vita la lealtà al popolo. E vi dico con certezza che il seme affidato alla coscienza degna di migliaia di Cileni, non potrà essere estirpato completamente. Hanno la forza, potranno sottometterci, ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli.
Lavoratori della mia Patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che avete sempre avuto, per la fiducia che avete sempre riservato ad un uomo che fu solo interprete di un grande desiderio di giustizia, che giurò di rispettare la Costituzione e la Legge, e cosi fece. In questo momento conclusivo, l’ultimo in cui posso rivolgermi a voi, voglio che traiate insegnamento dalla lezione: il capitale straniero, l’imperialismo, uniti alla reazione, crearono il clima affinché le Forze Armate rompessero la tradizione, quella che gli insegnò il generale Schneider e riaffermò il comandante Ayala, vittime dello stesso settore sociale che oggi starà aspettando, con aiuto straniero, di riconquistare il potere per continuare a difendere i loro profitti e i loro privilegi
Mi rivolgo a voi, soprattutto alla modesta donna della nostra terra, alla contadina che credette in noi, alla madre che seppe della nostra preoccupazione per i bambini. Mi rivolgo ai professionisti della Patria, ai professionisti patrioti che continuarono a lavorare contro la sedizione auspicata dalle associazioni di professionisti, dalle associazioni classiste che difesero anche i vantaggi di una società capitalista
Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che cantarono e si abbandonarono all’allegria e allo spirito di lotta. Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo ha fatto la sua comparsa già da qualche tempo; negli attentati terroristi, facendo saltare i ponti, tagliando le linee ferroviarie, distruggendo gli oleodotti e i gasdotti, nel silenzio di coloro che avevano l’obbligo di procedere.
Erano d’accordo. La storia li giudicherà
Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi. Perlomeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale con la Patria
Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi
Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore.
Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!
Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento
Santiago del Cile, 11 Settembre 1973



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